Madame Juliette ovvero Chi va al mulino s’infarina

di Silvia Riccio

 

14 giugno 1940 ore 5.30 del mattino. I tedeschi entrano dalla Porte
de la Villette in una Parigi silenziosa che li accoglie attonita. Per
quattro lunghi anni la città e l’intera nazione, saranno schiave sotto il
giogo nazista. Proprio da qui comincerà a dipanarsi, in modo del tutto
casuale, un lungo fil rouge che unirà persone ed avvenimenti lontani fra
loro nel tempo e nello spazio.

Fino a quando il 25 giugno la Francia non capitolò, i carri armati degli
invasori girarono per le vie cittadine provocando nei parigini un misto
di rabbia impotente, paura e disagio nel vedere la loro maestosa capitale
costantemente umiliata.
Il pavé delle strade saltava sotto la pressione dei cingolati,                                                                 ed il rumore era  assordante al punto di frantumare i vetri                                                                  di molte case e non pochi muri interni si crepavano o crollavano.

Questo fu ciò che accadde anche nell’alloggio al civico 118 di Rue de Bac dove Germaine e Marine Monreau, madre e figlia, abitavano.

Il boato che accompagnò la caduta di una parete dello studio del
defunto Avvocato Monreau, fu grande quanto lo spavento che ne seguì,
ma ancor più, fu la sorpresa nel veder svolazzare, per tutta la stanza,
decine di fogli scritti, mischiati a calcinacci e macerie.
Passata la paura e realizzato di non essere ferite, le due donne
li raccolsero e ne fecero un fascio. Videro che si trattava per lo
più di fatture e ricevute rilasciate da sartorie, modiste, boutiques
di biancheria e scarpe, tutti negozi di lusso che erano ancora in
attività sugli Champs Elysées.
“Mamma…che dici, sarebbe così scorretto leggerne qualcuna?” chiese
Marine – “Veramente vedo solo fatture.” disse Germaine sfogliando le
carte “No no guarda… guarda qua, eccone una” ed allungando la mano,
prese dal mucchio un foglio ingiallito maltrattato dal tempo, scritto
con grafia incerta e con un linguaggio approssimativo, tipico di chi
non è in amicizia con la grammatica e la sintassi.
Ciò che stupì Marine, fu la data che vide riportata in alto sulla
sinistra: 20 dicembre 1916. Incuriosita cominciò a leggere a voce alta.
“Mia cara Juliette vengo con questa mia per dirti che io sto bene
come spero di te e di tutta la tua famiglia. Sono cinque mesi che
non ho più ricevuto tue notizie. Sono un poco preoccupato perché,
come si dice dalle nostre parti, lontano dagli occhi lontano dal
cuore. L’altra settimana ho avuto il mal di pancia e così anche i
miei commilitoni.
Era la dissenteria ha detto Nicolas che ha studiato da dottore o forse
è stato un colpo di freddo, qui in trincea fa un freddo porco ed
anche il fango è di gelo. La vita è dura e nevica tutti i giorni. I
superiori sono più duri del pane che ci danno ed i miei compagni, che
siccome vengo dalla Bretagna, mi chiamano tontolone se non peggio.
Guardo sempre la fotografia che mi hai mandato l’anno scorso e mi
guardi con gli occhi dolci e mi sorridi felice mentre io mi tocco,
ma non è la stessa cosa come quella volta nel fienile”.
Breve pausa con rossore sulle guance di Marine, mentre la madre la
incalzava perché continuasse “Dai su…non sei più una bimba…vai avanti”
“Ti ricordi” riprese Marine “io ammucchiavo il fieno e tu preparavi
il pastone per il porco, granoturco, bucce di patate e torsoli di cavo-
lo. Come giravi così bene col bastone che mi è venuta una voglia…Ti ho
chiamata Juliette Juliette e tu sei venuta nel fienile. Che cosa vuoi…
mi hai detto, ti ricordi?
E io se volevi fare con me, come il gallo con le galline. E’ peccato
mortale mi hai detto. Te lo aveva detto don Pascal nella confessione,
proprio lui che faceva sempre come il gallo con la Teresine.
Io insistevo e tu ti sei inginocchiata a pregare la Madonna contro un
grosso sacco di grano. Mi è sembrato che volevi dire sono pronta e così
abbiamo fatto come il gallo con le galline. Però poi mi hai detto che
ti era piaciuto e che saresti andata dritta dritta all’inferno con me
sotto il braccio.
Juliette ti ricordi che spavento quando tuo padre è entrato nel fieni-
le e cominciato a gridare come un matto? Tu anche hai gridato ed io so-
no scappato con le brache a penzoloni…che se mi acchiappava mi infilza-
va con il forcone. Meno male che mi sono nascosto…però che bei ricordi”
Marine finì la frase con una risata: ”Mamma…ma ti immagini la scena del
padre di Juliette col forcone in mano.”- “Fosse capitato a te, tuo padre
avrebbe fatto lo stesso” disse Germaine “solo che al posto del for-
cone avrebbe usato il bastone da passeggio”. Risero…complici come spesso
capitava loro. Marine continuò…
“Non vedo l’ora di tornare a casa e di smettere questa guerra di merda
che non finisce più. Fammi un favore Juliette! Ti ricordi Jean il guercio,
quello sciancato brutto e zozzo che a momenti mi ammazzava di botte
quel giorno che ti avevo accompagnato lungo il fiume a portare le oche?
Bene, abita in quella casetta rossa vicino al mulino di Rodon, vagli a
dire che io non dimentico le promesse e che quando torno a casa lo porto
in quel posto a parlare di quella cosa che lui sa. Digli proprio così…mi
raccomando!
Mi hai scritto che al lavatoio hai incontrato un signore molto distinto
che ti ha chiesto di andare a Parigi con lui, dove farai un sacco di soldi
ed anche una bella vita. Mi sembra una grande idea così quando torno
ci compriamo una cascina tutta per noi, con il mulino sul fiume.
Però fai attenzione, perché a Parigi fa molto freddo d’inverno e a noi
Bretoni ci prendono sempre per il culo, me lo ha detto Pierre che lui sa.
Dì a quel signore che ti aiuti lui. Adesso vado che suona il silenzio e
dobbiamo rintanarci come sorci sottoterra. Scrivimi. Ti mando tanti tan-
ti baci sulla bocca, sui tuoi meloni di miele e dove sai tu. Salutami la
Cherie. A presto tuo per sempre Marcel”
Quando Marine finì di leggere appoggiò il foglio sgualcito in grembo e
si rivolse alla madre: “Ci pensi mamma, sono passati più di vent’anni
da quella data e chissà come saranno andate a finire le cose fra Marcel
e Juliette. Si saranno ritrovati dopo la guerra? E lei sarà poi andata a
Parigi? E la cascina? L’avranno comprata?”
“E’ impossibile che ci sia solo una lettera, non avrebbe avuto senso con-
servarne una soltanto! Gli innamorati si scrivono, si cercano…se no che
razza di innamorati sono”. Si chinò e prese a rovistare in mezzo ai calci-
nacci ed a quel che rimaneva della parete, non sapendo neanche lei cosa
cercare.
Non ebbe pace finché non vide qualcosa che attirò la sua attenzione: una
scatola di latta di una famosa marca di biscotti, le Galettes Bretonnes,
spuntava ammaccata dalle macerie. “Lo sapevo” disse aprendola “lo sapevo
che le avrei trovate, guarda cosa c’è mamma…non ci posso credere…”. Tirò
fuori un mazzo di lettere legate da un nastro rosso, sigillato sul nodo da
un timbro di ceralacca, accompagnato da un documento intestato Ministero
della guerra, su cui era scritto “ritornate al mittente in data 15 maggio
1919”.
“Ma che peccato” sospirò “questo vuol dire che Marcel non le ha mai lette e
che lei continuava a scrivergli inutilmente…povera Juliette!” A quel pensiero
alla ragazza vennero gli occhi lucidi, ma la curiosità ebbe la meglio
sulla commozione e, mettendo il mazzo di lettere in grembo alla madre “dai
mamma” disse “dai leggi…sto morendo dalla curiosità!”.
Germain voleva entrare in punta di piedi nella vita di Juliette e per un at-
timo si chiese se fosse giusto penetrarne l’intimità leggendo quei fogli in-
gialliti. “Dai mamma…su…leggi…ti prego…”. E lei cominciò a leggere con voce
incerta e timorosa.
10 febbraio 1917
Mio caro Marcel qui tutto bene o quasi ma la fame è tanta e tutti abbiamo
perso peso ed anche il colore della salute. I miei due cocomeri di miele,
che tanto ti piacevano, sono quasi diventati due fichi secchi e tu non li
riconosceresti più! Ti danno da mangiare abbastanza? Se non mangi mi chie-
do come farai a fare la guerra! Come mi hai chiesto sono andata da Jean e
gli ho ricordato che tu le promesse le mantieni sempre e di non preoccupar-
si per quel posto che tu gli hai detto. Ti ho salutato Chérie che quando ha
sentito il tuo nome ha fatto un belato lungo come la Quaresima. Ti devo lasciare che mio padre sta gridando che devo andare ad aiutarlo. Ti scrivo più presto che posso. Un bacio dalla tua Juliette”.
“Questa la leggo io” disse Marine sfilando un’altra lettera dal mazzo, e notò che erano state messe tutte in ordine progressivo.
26 febbraio 1917
“Caro Marcel qui a Pont Aven tutto bene no, ma spero bene per te anche se non
ho più letto niente di te. Ti ricordi quel signore che ho trovato al lavato-
io? Quello che mi vuole portare a Parigi? Si chiama Monsieur Francçis e dice
che si intende di arte, di femmine e di cabaret. Arte che cosa, gli ho chiesto
ieri, e lui mi ha detto che è venuto in questo buco in culo alla Bretagna,
che poi sarebbe il nostro paese, solo perché qui erano venuti a dipingere il
mulino tanti pittori famosi. Uno di nome è Vincent l’altro invece si chiama
Renoir e sono famosissimi mica solo a Parigi, e a lui piacciono.
Questo è per l’arte. Le femmine, dice Francois, devono avere un bel seno morbi-
do e burroso come i biscotti di Pont Aven le galettes e le cosce pure devono
essere così e pure solide come i piloni del ponte sul fiume. Dice pure che io
ho tutto quello che serve per lavorare al Moulin Rouge, un mulino di Parigi che
anziché farina macina soldi e dove scorre un fiume non di acqua ma di una specie di vino che lui ha chiamato campagne…insomma…una cosa così.
Tutti sanno che se uno va al mulino si infarina e anche io voglio andare là…
a quel mulino, così mi infarino anche io. Volevo anche dirti di non arrabbiar-
ti perché monsieur Francois ha fatto con me come il gallo fa con le galline pe-
rò mi è piaciuto molto di più che fare la gallina con te!
Vado a preparare il pastone e ti bacio dove ti piace di più. Juliette”.
Risero Marine e la madre, conquistate dall’ingenua impudicizia della ragazza e
pensarono con tristezza al destino del povero Marcel immerso nella desolazione
e nel fango della trincea. Un’altra lettera fu presa.
20 marzo 1917
“Mio caro Marcel, ti sei offeso per quello che ti ho detto? Non ho più avuto notizie
tue e sono arrabbiata io con te, perché almeno io ti scrivo e ti dico. Mi sento sola
e triste come un cane in chiesa ed è per questo che faccio l’amore con François.. ma
penso a te.
Quando facciamo l’amore François mi guarda le gambe e tutto il resto e per farla
breve ieri mi ha detto che se voglio, partiamo sabato per Parigi e che mi farà
fare la signora e mangerò tutti i giorni le brioches…altro che il pane secco di casa
e ci metterò sopra il burro e la marmellata.
Sono stufa di fare la fame e di fare pure la serva in casa del farmacista
per un tozzo di pane. Sono stufa di non avere niente di bello per me, solo gli
scarti degli altri…insomma…gli avanzi di chi ha cose che io non ho.
Non voglio più gli avanzi di nessuno Marcel, voglio il mio burro e la mia
marmellata sopra il mio pane Marcel…voglio le scarpe non più gli zoccoli, voglio
un bel pezzo di sapone tutto per me, voglio vivere come una donna e non come una
vacca nel fienile Marcel e credo che farò tutto quello che serve per averlo.
Ti scrivo, quando sono a Parigi. Ti bacia la tua Juliette”.
Senza parlarsi le due donne continuavano a pescare una lettera dopo l’altra……
8 giugno 1917
“Caro il mio Marcel, visto che tu non mi scrivi ti mando io notizie. Del paese so
quasi niente perché i miei genitori quando sono partita mi hanno detto che non sono
più figlia loro e non si fanno sentire. Mamma, come sai, non è capace di scrivere
mio padre è feroce e anche se mamma scriveva non glielo faceva fare, meno male che
c’è François!
Io adesso abito a Parigi in una casa vicino a quel mulino che ti dicevo…quel Moulin
Rouge lì. Tutti i giorni mangio le brioches con un dito di burro sopra e la marmellata
di albicocche che se stavo al paese col cavolo che le mangiavo.
François dice che la guerra è dura e non faceva per lui, che preferisce stare in mezzo
alle ragazze come me ad insegnarci a ballare il can can che qui ballano da prima
che io nascessi, e quando il ballo finisce tutte noi giriamo la schiena alla gente
che ci guarda e gli facciamo vedere il sedere e le gambe dentro mutande di pizzo.
Un giorno, mentre ero sul palco a fare il can can, ho visto nella sala Don Pascal
quell’infingardo, rosso come un tacchino che si sbracciava e mandava baci, allora mi
sono ricordata che tu mi dicevi che lui faceva il gallo con la Teresine e mi sono
messa a ridere e gli ho mostrato il culo.
Volevo anche dirti che sto mettendo da parte un bel po’ di franchi perché come tu
sai…chi va al mulino si infarina… ed anche tanto. François dice che la bellezza
non basta, perciò da domani, tutte le mattine devo andare a scuola così imparo a par-
lare e a scrivere, se no resto sempre una tonta di Bretagna, bella ma ignorante
come Chérie… la tua pecora. Stai tranquillo la guerra finisce presto…me lo ha detto
François.
Un bacio Juliette”.
Juliette, tenera ma concreta ragazza bretone, stava crescendo sotto gli occhi di Marine
e Germain, e poco per volta stava smettendo i panni della contadinotta affamata per vestire quelli della parigina smaliziata ed ambiziosa. Dalle sue lettere traspariva quanto fosse felice ed appagata della vita che conduceva, della casa in cui si era trasferita, in Rue de Bac, dei vestiti che François le regalava, dei cappelli che sembravano giardini in fiore (così li descriveva, dal che si capiva quanto l’andare a scuola le stesse giovando), delle scarpe in capretto e delle calze di seta.
Descriveva quello che mangiava a partire dalla colazione per finire alla cena…patè de fois grasse, piatti elaborati a base di selvaggina e manzo brasato, formaggi di ogni tipo ed il tutto annaffiato da un robusto Borgogna. Dopo mesi di questa dieta Juliette ritrovò tutti i colori della salute ed i suoi meloni dolci come il miele, erano tornati al loro posto, per la gioia di François e dei clienti del Moulin Rouge, che l’adoravano e la chiamavano Mademoiselle Juliette.
Era ormai lontana anni luce dal suo primo amore e dalla casetta umida e grigia dove abitava con papà Gerard e mamma Marie. Aveva un altro amore ed una casa grande, piena di luce anche quando il sole non c’era.
6 maggio 1918
“Caro Marcel è passato un anno e mezzo dalla tua ultima lettera ma io continuo a scriverti lo stesso per rassicurati del mio benessere e della mia trepidazione per le tue
condizioni. A volte ti sarò sembrata frivola e un po’ sciocca nel raccontarti di me
e del mio nuovo stato mentre tu sei in trincea, ma l’ho fatto e lo faccio perché, conoscendoti, so che tu sei felice per me. Se lo sei, ti prego di non essere geloso di
François, perché gli devo tutto.
Cosa avrei potuto fare da sola in una città come questa senza alcuna protezione, un
appoggio, una spalla amica? Tu non hai idea caro Marcel di quante ragazze bretoni sono scappate dalla miseria delle loro case, per cercare un lavoro di cui vivere e poter
spedire qualche moneta al paese!
Il lavoro lo hanno trovato lungo le strade di Parigi, vendendosi in squallidi quartieri senza speranza e senza futuro, sfruttate fino alla morte da sordidi amanti. Io sono stata fortunata…ho trovato Francois o…per meglio dire lui ha trovato me”.
“Mamma, com’era la Bretagna di quei tempi?” chiese Marie interrompendosi nuovamente.
“Alla fine del secolo scorso ed all’inizio di questo, la miseria in Bretagna raggiunse
il suo massimo. Ti basti sapere Marie che centinaia di migliaia di Bretoni, emigrarono
verso le altre regioni della Francia ed anche oltre oceano. E come dice Juliette, la
gran parte delle donne finirono sui marciapiedi a vendersi e gli uomini a chiedere la carità. Le città di guarnigione e Parigi, ne furono inondate” concluse Germaine con un sospiro e fece cenno alla figlia di continuare.
“Marcel caro…tu non hai idea di che città sia Parigi: maestosa, luminosa anche di notte,
piena di gente, di gioia di vivere… di artisti che la percorrono ad ogni ora del giorno.
Puoi trovare pittori ad ogni angolo di strada, in special modo a Pigalle e Montmartre,
sempre alla ricerca di ragazze di qualsiasi tipo, non soltanto belle ma che abbiano qualcosa che ai loro occhi risulti attraente o particolare.
François me ne ha presentati diversi. Un italiano, che chiamano Modì, dice che vuole fare un quadro con me tutta nuda sdraiata su un divano. E’ un uomo strano, spesso ubriaco di assenzio. Dipinge donne con il collo più lungo del normale, gli occhi tristi e mai un sorriso sulle piccole bocche. Francois dice che è malato di polmoni, ma ciononostante fuma come un disperato.
C’è anche uno spagnolo…uno piccoletto, con gli occhi nerissimi, che quando ti guarda sembra possederti anche l’anima…si chiama Pablo e mi vuole come modella. Non so se accettare…mi mette soggezione. Aspetto delle risposte per un nuovo lavoro e se tutto va come dovrebbe, nella prossima lettera avrò delle cose speciali da dirti.
La tua Juliette”.
Nella scatola delle Galettes Bretonnes non era rimasta che una lettera. Marine la prese e la cincischiò un po’ fra le mani prima di aprirla. Non aveva più fretta di curiosare nella vita della ragazza, voleva ritardare il momento in cui, letto quell’ultimo foglio sgualcito, non avrebbero saputo più nulla di lei e del suo mondo. Tutto sarebbe diventato nient’altro che un ricordo. Alla fine si decise e l’aprì.
30 giugno 1918
“Marcel mio caro, ormai non nutro quasi più speranza di leggerti, anche se in fondo mi ostino a pensarti vivo perché voglio credere che nulla di brutto ti sia capitato. Il mio cuore però si fa piccino se ti penso nel pericolo…laggiù in quelle trincee fangose dove la gioventù di Francia e di tutta Europa sta versando sangue e lacrime.
Marcel…mi sei caro come un fratello e ti voglio tanto bene. Qui di seguito ti scrivo il mio indirizzo perché fra qualche giorno parto e vado in tournee in America con uno spettacolo molto bello di canto, coreografie di un certo livello e tanto altro ancora.
Adesso non mi scateno più nel can can, ma canto e ballo alle Folies Bergere ed al
Casino de Paris.
Non sono la sguaiata ragazzotta bretone che ero ma, almeno così dicono gli impresari che mi vogliono, una superba interprete di questi ultimi sprazzi della Belle Epoque, degna di affiancare Mademoiselle Mistinguett nella lunga tournee americana che ti dicevo. Anche lei era una come me, una del popolo, vendeva fiori in un ristorante ed è ancora una grande interprete, simbolo della Francia nel mondo dello spettacolo.
Marcel…io torno fra due mesi e mi piacerebbe, se Dio lo volesse, leggere una tua lettera … avere qualche notizia. Fatti vivo in qualunque modo tu voglia e possa…Francois è buono e capisce il mio affetto per te. Un lavoro ed una casa saranno qua ad aspettarti…sai che ti vorrò sempre bene!
La tua Juliette”.
Nel pomeriggio del 25 agosto 1944 Charles de Gaulle entrò in Parigi liberata, dalla Porta d’Orleans. Il giorno seguente il Generale depose una corona di fiori sulla tomba del Milite Ignoto all’Arc de Triomphe e quando si girò, il suo sguardo fermo ma commosso, percorse l’oceano di folla. Oltre 2 milioni di francesi erano accorsi per festeggiare la liberazione.
Anche Marine e Germain erano lì, a piangere di gioia strette in un abbraccio.
I quattro anni di occupazione furono penosi e loro si barcamenarono come meglio poterono per sopravvivere. Misero da parte l’orgoglio di ricchi borghesi, mantenendo però saldi i loro principi e la loro dignità. Vendettero tutti i tappeti che ricoprivano i pavimenti di casa, si liberarono di ogni singolo pezzo di argenteria e di quasi tutti i gioielli di famiglia. Vissero del ricavato per tutta l’occupazione.
La stanza in cui crollò la parete che separava lo studio dal salone, fu ripulita dalle macerie il giorno dopo il ritrovamento della scatola di Galettes Bretonnes e rimase con quel grande buco, come un sorriso in una bocca senza denti, fino alla fine del conflitto. Passò qualche anno. Marine si sposò con Armand Lacroix, un ex fidanzato del liceo tornato dalla prigionia ed insieme si curarono con amore le ammaccature invisibili che la guerra non aveva risparmiato loro. Il grande alloggio di Rue de Bac diventò la loro casa.
Marine conservava con grande cura tutte le lettere di Juliette; le aveva ordinate per data e legate con lo stesso nastro rosso di cui aveva spezzato il sigillo di ceralacca per leggerle. Finirono di nuovo nella scatola di biscotti Galettes Bretonnes, destinate a diventare niente più che un ricordo del passato se il destino non avesse deciso altrimenti.
Agli inizi degli anni 50, il Moulin Rouge conobbe un nuovo periodo di splendore. Fu restaurato in modo considerevole sia nella struttura che negli interni e negli arredi. Si assecondò così l’ondata di ottimismo e la voglia di vivere non solo dei Parigini ma della Francia intera, dopo una guerra lunga e dolorosa. Il 19 maggio 1953 il Presidente della Repubblica Auriol, inaugurò il nuovo Moulin Rouge. Ancora una volta tornò il Can Can, con la precisa volontà di recuperare lo spirito originario del Cabaret e le sue principali attrazioni.
Furono ricordate le celebrità del passato con grande commozione e quelle poche ancora viventi si esibirono nel loro repertorio, ricevendo l’ovazione del pubblico.
I più anziani ricordarono con affetto ed i giovani conobbero i protagonisti di un periodo che ancora viveva nel cuore e nell’aria stessa di Parigi. Com’era prevedibile la serata ebbe un successo strepitoso e lo spettacolo rimase in cartellone per parecchie settimane.
Gli abitanti della città, poco per volta, avevano ripreso possesso della propria esistenza vivendo il presente con ritrovata gioia e guardando al futuro pieni di entusiasmo e speranza. Alla fine di maggio l’alloggio di Rue De Bac vide l’arrivo di un altro bimbo paffuto e frignante, battezzato col nome di Marcel, venuto a fare il paio con Juliette, la primogenita di Marine ed Armand. Nonna Germain era l’immagine della felicità.
La primavera si scaldò nel sole dell’estate e quando anch’essa finì, l’autunno arrivò a tingere di rosso e oro i tigli del viale. Donne con i bimbi nelle carrozzelle passeggiavano sotto gli alberi. Molte coppiette sorridenti camminavano lente, allacciate per la vita e gruppi di ragazzi sgroppavano rumorosi come cavalli al galoppatoio. L’aria era dolce e tutti indugiavano sullo stesso tratto di strada alberata: dalla Patisserie Des Reves fino a La Grande Epicerie de Paris. Nessuno pareva aver voglia di tornare a casa.
Da quando era tornata a Parigi, Juliette andava a passeggio tutti i giorni lungo il viale e quando arrivava al numero civico 118 si fermava, sempre. Guardava ora il grande portone di legno massiccio, aperto per metà, ora le finestre del secondo piano, sulla destra. La sua curiosità la spinse un giorno a chiedere alla portinaia dello stabile notizie sulla famiglia che abitava nell’alloggio che una volta fu suo. La sua voce dolce e la motivazione che diede nel fare quella richiesta, portò i suoi frutti.
Dopo quella volta, in non poche occasioni aveva mosso qualche passo verso l’androne con l’idea di andare oltre ma ci ripensava e svelta tornava indietro, riprendendo il suo girovagare, apparentemente senza meta. Aspettava il momento giusto.
Aveva un’andatura languida e lo sguardo pensieroso. Ricordava altri autunni dorati, affetti mai dimenticati, altre passeggiate nelle serate ancora tiepide fatte senza fretta, così…un piede dietro l’altro. Teneva il capo leggermente piegato all’indietro e gli occhi socchiusi, rievocando il profumo intenso dei tigli… “Quanto mi è  mancato questo viale” diceva fra sé e sé “questo profumo…questa città… Parigi…Parigi…”
Ci era tornata per l’inaugurazione del Moulin Rouge, dopo i pressanti inviti ricevuti a partecipare allo spettacolo, per vestire ancora una volta gli abiti di scena di Mademoiselle Juliette. Alla fine accettò… “Ma canterò solo Mon homme” disse, e non ci fu verso di farle cambiare idea. Alla fine dell’esibizione fu il delirio, anche il Presidente Auriol era in piedi ad applaudire. “La sua interpretazione ti strappa il cuore dal petto…meglio di Edith Piaf e di Mistinguette…” era questo il parere di molti.
Gli uomini si voltavano al suo passaggio ed ogni volta, i più anziani, riconoscendola la salutavano e le sorridevano toccandosi con due dita la tesa del cappello per poi
sussurrare al vicino “E’ sempre una splendida donna…non più giovanissima è vero…però di una bellezza…”. La frase restava sospesa nell’aria, ed i sussurri ammirati non erano mai così a bassa voce da impedirle di sentire e di sorridere compiaciuta.
Durante uno dei soliti giri, arrivò alla Patisserie des Reves, ne varcò la soglia e alla commessa che sollecita le chiedeva cosa desiderava, disse: ”Una scatola di Galettes Bretonnes…” e poi aggiunse “non la incarti per favore, mi metta semplicemente un nastro, è così’ bella che sarebbe un vero peccato nasconderla con della carta!”. Uscì dal negozio con un lieve sorriso sulla bella bocca e ritornò sui suoi passi.
Giunta al civico 118, si sedette sulla panchina con la scatola sulle ginocchia e guardò l’ora sul piccolo orologio da polso. “Un’ora…ancora un’ora” disse con un lungo sospiro che frusciò sulla seta del suo elegante vestito. Ancora un’ora e avrebbe visto rientrare dalla quotidiana passeggiata, la signora del secondo piano con i suoi bambini. Era una donna molto precisa.
Si accese una sigaretta e si mise comoda ad aspettare, mentre i ricordi si rincorrevano
dietro i suoi occhi.
Ricordò la gioia incontenibile di quando, al braccio di François, mise piede per la prima volta nell’alloggio del secondo piano, lo stesso che l’Avvocato Monreau, morendo, aveva lasciato alla moglie Germaine e alla figlia Marine. Le due donne ci vivevano dagli anni 30 e Marine, sposata Lacroix, lo aveva allietato con la nascita di due bimbi.
Era lo stesso in cui lei, Juliette, aveva nascosto, nella doppia parete dello studio, una scatola di latta, scrigno di lettere, sogni e speranze, parole mai lette, annodate da un nastro rosso, rosso come un pezzetto di cuore ancora legato a Marcel. Juliette ricordava tutto con estrema chiarezza ed una fitta di nostalgia le velò l’azzurro degli occhi. Fu un attimo…finalmente la vide!
I suoi passi la portarono verso la panchina, spingeva la carrozzina cercando di calmare,
con voce gentile, i capricci della bimba appesa alla sua gonna….”Adesso…adesso è il momento” si disse Juliette “devo fermarla assolutamente”.
Si alzò con le gambe che le tremavano un po’, tenendo in mano la scatola dei biscotti alla stregua di un biglietto da visita, una garanzia ed una conferma nel presentarsi
come Juliette…la Juliette di Marcel…”. Marine riconobbe la scatola di latta celeste con la cartina della Bretagna disegnata sul coperchio e sollevando lo sguardo, incrociò quello azzurro di Juliette, che con un sorriso ed il gesto della mano la invitò a
sedersi sulla panchina.
“Le devo parlare” le disse in un sussurro “Anche io Juliette” replicò Marine “ho tante cose da chiederle…ma prima di tutto devo restituirle un oggetto e delle lettere che le appartengono. Mi scuso per averle lette…”. E Marine raccontò a Juliette ciò che era accaduto in quell’ormai lontano giugno del 1940. Si sedettero, ed una immediata simpatia reciproca le indusse a tenersi strette le mani, restando in silenzio il tempo necessario a fare ordine fra le mille domande che urgevano sulle loro labbra.
Dopotutto non avevano fretta ed il pomeriggio era ancora lungo.
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Madame Juliette ovvero Chi va al mulino s’infarinaultima modifica: 2021-03-15T18:20:51+01:00da picci-teacher
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3 pensieri su “Madame Juliette ovvero Chi va al mulino s’infarina

  1. Un racconto dolcissimo, pieno di vita, di sentimenti e di emozioni. Brava, Silvia, anche per come hai saputo ricostruire i luoghi e la Storia.

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